mercoledì 8 luglio 2015

La via alle privatizzazioni nel modello capitalistico italiano. Un’indagine statistico-aziendale 3 Luciano Vasapollo

In sostanza, però, il processo di privatizzazione che ha caratterizzato l’Italia negli anni ‘80 sembra aver privilegiato interessi di parte, di alcune istituzioni e grandi famiglie del padronato italiano, invece di conseguire finalità pubbliche, o di allargamento della base azionaria in funzione di ventilati progetti di democrazia economica basati sull’azionariato dei lavoratori e l’azionariato popolare. L’intento è stato piuttosto quello di favorire grandi gruppi industriali privati con il risultato di condizionare l’economia del Paese, sottoponendola ancor più al dominio delle grandi famiglie.
A confermare quanto detto basti ricordare il caso della tentata vendita della SME (azienda alimentare), operante nel gruppo IRI, effettuata nel 1985. Considerando che la SME era stata completamente sanata dopo gli interventi di riforma avvenuti ne4l 1983 e nel 1985, è risultato chiaro che il tentativo di vendita di questa impresa non era dettato da una crisi economico-finanziaria quanto piuttosto dalla volontà di costruire un grande polo alimentare nazionale a caratterizzazione privatistica, in grado di fronteggiare eventuali acquisizioni estere. Il possibile acquirente scelto dall’IRI (senza richiedere alcun tipo di approvazione da parte del Ministero delle Partecipazioni Statali) era stato il gruppo Buitoni, con il quale era stato già raggiunto un accordo preliminare. La completa mancanza di trasparenza di questa operazione che avveniva a vantaggio di un gruppo privato a discapito della finalità pubblica, ha portato a non autorizzare la vendita e alla riapertura del processo di vendita attraverso un’asta pubblica. La Buitoni di rimando ha aperto una causa legale nei confronti dell’IRI per il mancato adempimento degli accordi. Questa confusa e contrastata vicenda ha interrotto la vendita della SME, che fino al 1993 è rimasta nel settore pubblico.
Anche per la cessione della Lanerossi ci sono delle particolarità; soprattutto grazie alla spinta delle organizzazioni dei lavoratori la vendita è avvenuta almeno nell’impegno formale di tre condizioni : la salvaguardia degli interessi dei livelli occupazionali, la garanzia del rispetto degli investimenti in corso, e infine a condizione che la società acquirente fosse di dimensioni simili alla Lanerossi. Il problema principale è stato soprattutto quello di un riposizionamento strategico dell’ENI: “Nel caso del tessile, il settore è stato acquisito dall’impresa pubblica per un’azione di salvataggio. Una volta compiuto il salvataggio e riportata l’azienda in equilibrio il compito si esaurisce e il problema della possibile dismissione si pone”; il presidente dell’ENI, Reviglio ha stabilito con queste parole la vendita della Lanerossi il 5 Febbraio 1987. Il gruppo Marzotto ha offerto la cifra più alta ( 167,9 miliardi di lire) ed ha acquistato la Lanerossi.
Il caso dell’Alfa Romeo è stato invece condotto senza alcun ostacolo e con una completa sottomissione allo strapotere del gruppo Fiat; anche se va ricordato che questa impresa, a differenza della SME, si trovava in condizioni disastrose dal punto di vista finanziario essendo in continua perdite di bilancio, dovute a scelte politico-economiche volutamente suicide. Si può sicuramente ipotizzare che il dissesto economico-finanziario dell’Alfa Romeo sia stato almeno in parte voluto, in modo tale che la privatizzazione risultasse quasi una “scelta imprenditoriale obbligata”; le proposte di acquisto delle azioni di questa società sono state formulate dalla FIAT e dal gruppo Ford (Stati Uniti). Una serie di fattori, tra i quali non ultimo la volontà di mantenere la gestione dell’impresa entro i confini nazionali, ha portato a privilegiare la proposta della FIAT.
La considerazione più ovvia da fare a conclusione di queste prime grandi privatizzazioni è lampante: l’IRI e l’ENI, sorte per contrastare i monopoli e difendere il settore pubblico, hanno in definitiva effettuato delle operazioni di privatizzazione che hanno rafforzato e non ridotto la concentrazione industriale. A tal proposito si vedano la Tab.5 e il Graf.6 che evidenziano in maniera inequivocabile la svendita dell’importante patrimonio pubblico dell’economia, ancora più accentuata per il sistema bancario, e il consolidamento delle concentrazioni oligopolistiche in mano alle grandi famiglie del capitalismo italiano.
Per quanto concerne i servizi pubblici a livello locale (ci si riferisce al trasporto, alla luce, al gas, ai rifiuti urbani, alla sanità, alla gestione di parchi e giardini), va ricordato che la formula di solito adottata nel passaggio dalla gestione pubblica a quella privata, è stata quella dell’appalto ad imprese private (Cfr. Tab.6). Sono stati, cioè, affidati i compiti di erogazione dei servizi ad aziende private che vengono direttamente o indirettamente finanziate dall’autorità locale, la quale si riserva di operare solo una sorta di controllo e di direzione dei lavori.
La legge n.210 del 1985, che ha disposto la trasformazione delle Ferrovie dello Stato da Azienda Autonoma in Ente Pubblico, può essere considerata come una ulteriore e diversificata forma di lento ma inesorabile percorso verso la privatizzazione dei trasporti, e dei servizi in genere di primaria importanza. Va considerato innanzitutto che le Ferrovie, con il loro disavanzo dovuto a una cattiva gestione manageriale e ad un sempre più perverso legame partitico-affaristico, per anni hanno costituito uno dei problemi più pressanti di finanza pubblica. I sempre maggiori disavanzi, uniti al forte aumento di squilibri di economicità e di efficienza, hanno portato l’azienda autonoma delle Ferrovie ad affrontare problemi sempre più seri; basta a questo proposito analizzare la quota percentuale delle spese correnti coperte con i proventi tariffari per notare come questa quota sia andata progressivamente diminuendo (vedi Graf.7 e relativa Tab.6a) .
All’inadeguatezza della politica gestionale, si è aggiunta poi la completa inefficienza nel campo della qualità del servizio, creando così quegli apparenti presupposti, che in realtà erano il risultato di un deliberato piano politico di affossamento della struttura aziendale pubblica, i quali evidenziano le difficoltà registrate nella gestione dell’azienda hanno portato alla promulgazione della legge del 1985 che, con l’istituzione dell’Ente pubblico, intendeva far acquisire una maggiore economicità ed efficienza alle ferrovie attraverso una maggiore autonomia patrimoniale, contabile, finanziaria, di direzione e gestione. Si trattava di un primo passo verso un reale processo di privatizzazione, che ancora non si è del tutto completato, e che al momento non solo non ha portato a risolvere problemi esistenti nel settore dei trasporti senza migliorare i livelli di efficienza ed economicità delle Ferrovie, ma che si è risolto in un apparente risultato economico positivo per l’azienda, conseguito con tagli sul costo del lavoro, sui costi di manutenzione e con incommensurabili costi sociali; si vedano i continui incidenti e disastri ferroviari di questi ultimi mesi.

 http://www.proteo.rdbcub.it/article.php3?id_article=21&artsuite=2

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