Andrea Marcenaro per "First", in edicola domani
L'Italia di inizio anni Novanta si era spaccata in due su Indro Montanelli. Intorno alla metà di settembre di quest'anno, è sembrata rispaccarsi in due su Vittorio Feltri. Due direttori del Giornale. Entrambi di destra. Montanelli, diventato infine eroe della sinistra perché Silvio Berlusconi era entrato in politica e lui lo aveva combattuto senza quartiere. Feltri, odiato dalla sinistra, e non solo da essa, perché non ha concesso quartiere agli avversari di Berlusconi. Inconsueti i motivi dello scontro di oggi.
L'attacco di Feltri si era rivolto infatti contro Dino Boffo, direttore di Avvenire e creatura culturalmente affine a Camillo Ruini, vale a dire una delle personalità religiose più avversate dalla sinistra di sempre. Poi contro Gianfranco Fini, l'ex fascista per cui la sinistra europea solo pochi anni fa rifiutava la mano ai membri del governo italiano. E adesso invece la sinistra lo applaude. L'Italia è d'altronde uno strano Paese. E questa a Feltri è una strana intervista.
Direttore, dov'è la nobiltà, nel lavoro di giornalista?
«Di nobile c'è poco. Può essere divertente, perfino appassionante, di nobiltà non parlerei».
Dice per sé?
«Per me e per gli altri».
Non tutti sono come lei.
«Vero. Gli altri sono disinteressati, altruisti e imparziali. Diciamo santi. E indipendenti, mi raccomando, scriva che sono indipendenti, non servili come me. Li invidio».
Ha una notizia che farebbe soffrire una persona che ama. La pubblica?
«Notizia come? Importante?»
Così così.
«Non la pubblico».
Ha una notizia, di pari peso, che farebbe soffrire una persona che non ama. La pubblica?
«Direi di sì. Può capitare che no, ma se può avere un minimo interesse tendo a pubblicarla».
Figli e figliastri.
«Faziosità, la mia, anzi, perfidia. Laddove gli altri, quelli nobili, menano a 360 gradi senza partigianeria. Le confesso un cosa?».
Prego.
«Personalmente trovo qualche difficoltà, ad astrarmi da me stesso. Sono fatto così, ho una premura più pronunciata verso quelli cui voglio bene o la cui opinione ho condiviso. Se poi la realtà chiede di arrendermi, lo faccio. Talvolta però mi sorprendo più comprensivo con loro e più intransigente invece con quelli che non conosco. Che mosca bianca, eh?».
Nera, dicono semmai.
«Già, nera».
Ha una notizia che può spingere una persona alla disperazione, o al suicidio. La pubblica?
«Come si fa a pensare che qualcuno possa ammazzarsi? Non puoi chiederti quali effetti produrrebbe una notizia nella sfera più insondabile di chi ne viene coinvolto».
Perché?
«Non scriveresti niente, mai più. Può essere una scelta, ma sarebbe la negazione del nostro mestieraccio».
Ha una notizia che danneggia il suo editore. La pubblica?
«Una notizia come?».
Importante, verificata.
«La pubblico».
Dubito.
«Lei dubiti, io la pubblico».
Per amor di verità?
«Anche. Di più per amor proprio».
Cioè?
«Un giornale è luogo di relazioni. Non avrei la faccia per affrontare gli altri il giorno dopo. E non si dirige un giornale nascondendo la faccia. Attutirei, forse, metterei bambagia, si conoscono mille modi di presentare le notizie imbarazzanti. Ma pubblicarla, la pubblico».
E poi si dimetterebbe?
«Nemmeno per sogno».
E il dovere di lealtà verso chi paga?
«Se ho scritto balle, merito il licenziamento. Se no, l'editore può cacciarmi, ma la lealtà non c'entra, né per dritto né per rovescio».
Ecco di nuovo il Feltri mosca bianca...
«...nera, avevamo detto...».
...il Feltri mosca nera che darebbe senza esitazione una notizia contro Silvio Berlusconi. Mentre i casi Boffo e Fini sono lì ad accusarlo dell'opposto.
«Da quale partiamo?».
Fini.
«Su molte cose, dal testamento biologico in giù, ero più d'accordo con lui che con Berlusconi. Nel processo di formazione del Popolo delle libertà ho sostenuto le sue ragioni più di quelle di Berlusconi, e l'ho scritto. Se di amicizia si potesse parlare, ero più amico suo che di Berlusconi».
Finché l'editore non le ha chiesto un favorino.
«Cretinate. Finché Fini non ha dettato alle agenzie di stampa che ero un killer politico».
Ha parlato di "killeraggio politico in voga", non si è riferito direttamente a lei.
«Già. E qui siamo tutti fessi. Repubblica linciava il premier da mesi e neanche una parola. Io attacco Dino Boffo con una sentenza pubblica, e il giorno stesso il presidente della Camera spara sul killeraggio politico. Be', killer lo vada a dire a sua sorella. Ho difeso il mio e reagito a una slealtà».
Che abbia reagito non si può negare.
«E cosa c'entra il favorino all'editore?».
C'entra col fatto che Berlusconi e Fini non erano culo e camicia.
«Non lo erano da mesi, forse da anni, e che Fini cercasse una visibilità politica a prescindere dai patti elettorali, e dalla stessa linea del Pdl, non era una novità».
Appunto, la brutalità dell'accelerazione antifiniana si spiega con il suo passaggio al Giornale, e coincide con le aspettative dell'editore, il quale l'ha chiamata per togliersi alcuni sassoloni dalle scarpe.
«No. Decisivo è stato quello che le ho detto. Quanto a ciò che ho scritto di Fini, l'ha confermato lui stesso con le prese di posizione successive. E non credo di aver fatto un favore a Berlusconi. Che poi io consideri Fini una specie di Follini, destinato a rompere i coglioni sempre, per nulla concludere mai, questo è un fatto e un libero convincimento, non è il precipitato di un complotto».
Ne circolano di notevoli, sul suo ingaggio per trasferirsi al Giornale. Siamo arrivati a 15 milioni di euro.
«Ne sarei lusingato. Facciamo così. Se qualcuno dimostra che ho preso 15 milioni, ma anche 2, e mi voglio rovinare, 1, mi impegno a versargli una parte del malloppo».
Quanto?
«Il dieci per cento».
Mica molto.
«Su 15 milioni balla un milione e mezzo. Su un milione, centomila. Buttali via».
Quanto le hanno offerto, invece?
«Cinquantamila euro l'anno in più di quello che prendevo a Libero».
Vale a dire?
«750 mila euro l'anno. Mica niente, no?».
Più che a me. Chissà come si saranno incazzati gli Angelucci. Dicono che i suoi vecchi editori di Libero la strozzerebbero.
«Un po' sì. Quando gliel'ho detto, Gianpaolo c'è rimasto male. E mi ha controproposto delle cifre che non è stato facile rifiutare. Ma ormai avevo firmato per il Giornale».
Sta dicendo che prima ha firmato col Giornale e solo dopo l'ha detto agli Angelucci?
«Sì».
E non poteva avvisarli prima?
«Potevo, non l'ho fatto».
Gad Lerner le ha disegnato il seguente profilo: «È il senso comune conservatore, politicamente scorretto, con le dovute spruzzatine reazionarie».
«Perfetto, mi riconosco».
Spruzzatine reazionarie comprese?
«Ma sì, non mettiamoci a guardare il capello».
La ricordavo di più per il suo aspetto rivoluzionario. Con Berlusconi è diventato garantista, ma i suoi entusiasmi per Mani pulite e per la rivoluzione contro i ladroni della Prima repubblica restano indimenticabili.
«Colpito».
In che senso?
«Ho scritto cose che non riscriverei».
Per esempio?
«Su Bettino Craxi. Ne avevo stima, ma contribuii a massacrarlo, a dipingerlo come il cinghiale nababbo e ladrone, e non lo era».
Gliel'ha detto?
«Sono andato a Hammamet, ne abbiamo parlato».
Cosa gli raccontò?
«La verità. Ero all'Indipendente, dovevo vendere copie, il clima era quello, e su quello il giornale aveva preso a tirare come una bestia. Mi adeguai per convenienza. Ne ho crocifissi parecchi. Me ne dispiace, così sono andate le cose».
Non le pare, con Berlusconi, di essere diventato garantista a senso unico? Di nuovo perché così vanno le cose?
«No, non mi pare. Ma voglio aggiungere un nome che ho qui, sullo stomaco».
Prego.
«Severino Citaristi, l'amministratore della Democrazia cristiana. Era di Bergamo come me, lo conoscevo per onesto. Ha avuto più processi di tutti, i democristiani scaricavano su di lui ogni colpa, le procure lo martoriavano e lui ne soffriva. Non solo non l'ho difeso, l'ho messo nel tritacarne. Me ne vergogno, ma insomma, quel che ho fatto ormai l'ho fatto».
Una cosa ancora, quella sua stima per Di Pietro.
«Mi aveva garantito: non guarderemo in faccia nessuno, verrà anche il tempo del Pci. Non era vero. Non c'era nemmeno una giustizia, nell'ingiustizia. Sposò anche lui la politica dei due pesi e delle due misure. E ragionai di quale stoffa fosse fatto».
Perché ha attaccato in quel modo il direttore di Avvenire?
«Perché la notizia era quella e parlava da sola».
Perché in quel momento?
«Se il momento fosse stato un altro, lei mi chiederebbe: perché proprio in quell'altro momento? La risposta è semplice: perché in quel momento ho avuto la fotocopia del decreto penale che riguardava Dino Boffo».
Da chi?
«Da persona affidabilissima e molto al di sopra di ogni sospetto. Moltissimo».
Oh Madonna, Eugenio Scalfari?
«Acqua».
Avrebbe dato la notizia se si fosse trattato, mettiamo, di Paolo Bonaiuti?
«L'Espresso, Repubblica, la Stampa, il Corriere, il Messaggero, il Gazzettino, e potrei continuare, l'avrebbero data loro da anni, gli atti del processo sarebbero pubblici, avrebbero trovato il modo di dire che Berlusconi era complice e ci avrebbero costruito sopra 10 domande. Certo che l'avrei data, non foss'altro perché non avrei potuto non darla».
Dino Boffo ne ha avuto l'immagine distrutta. È contento?
«No, non sono contento».
Ridarebbe la notizia?
«Sì».
Conosceva Boffo?
«Incrociato un paio di volte».
Aveva motivi di risentimento personale nei suoi confronti?
«Risentimento è una parola forte. Però sì».
Quali?
«Nel 2000 venni radiato dall'Ordine dei giornalisti di Milano per aver pubblicato su Libero alcuni nomi di pedofili e alcune foto sulla pedofilia. Feci ricorso. Due furono i colleghi che si accanirono particolarmente affinché l'Ordine respingesse quel ricorso, invece accolto: Boffo e un giornalista romano».
Chi è il giornalista romano?
«Lasciamo perdere».
Non vorrei essere nei suoi panni.
«E perché?»
Come perché?
«Io non faccio rappresaglie. Mi limito a ricordare che quel tipetto si comportò da stronzo».
Come sono i rapporti con Maurizio Belpietro, che l'ha sostituita a Libero?
«Buoni».
Buoni?
«Buoni. Avevo fatto su di lui quella battuta stupida: "Belpietro arriverebbe secondo anche se corresse da solo". Non solo non è vero, com'è ovvio, ma mi dispiace molto di averla fatta».
È la giornata delle scuse.
«Di quelle giuste, che non sono troppe».
«Vittorio Feltri era un grande giornalista. Peccato», dice Claudio Sabelli Fioretti.
«Giuseppe D'Avanzo scrive tutti i giorni su Repubblica che sono un assassino. Quello di Sabelli Fioretti, in confronto, è un complimento da esibire».
Chi assumerebbe al volo?
«Giampaolo Pansa, da sempre, lo assumerei subito».
È appena andato a Libero.
«Bel colpo».
Poi?
«Emanuela Audisio di Repubblica».
La odia?
«Perché?».
Così le stronca la carriera.
«Infila la politica anche nel nuoto, ma mi piace. E Giancarlo Perna, ma quello ce l'ho già».
Ci sono più ruffiani a sinistra o a destra?
«Prima a destra, adesso se la battono».
Chi le sta davvero sulle scatole, a destra?
«Quasi tutti».
Quasi tutti è quasi nessuno. Più Dell'Utri o più Scajola?
«Dell'Utri mi è simpatico».
Poco tempo fa, dichiarò: «A Silvio sto sulle balle. Se non gli stessi sulle balle, mi chiederei perché». Pare che sia arrivato il momento di chiederselo.
«Perché sto al Giornale?».
E certo.
«Continuo a stargli sulle balle. E lo capisco. Gli ho fatto la fronda a Libero per nove anni...».
E il dolore è stato tale che l'ha assunta.
«Appena arrivato al Giornale gli ho fatto saltare l'incontro col segretario di Stato Tarcisio Bertone, e, chiacchiere o no, non l'ha presa bene. Poi Fini, e, chiacchiere o no, non ha preso bene nemmeno quella».
Chiacchiere, chiacchiere, non saranno tutte chiacchiere.
«Senta, io ho una scorta, non sono mai solo. Chieda a loro se sono mai andato a palazzo Grazioli, o a palazzo Chigi, o ad Arcore, o dove vuole. E autorizzo Telecom, o chi per essa, a mostrare i tabulati delle mie telefonate. Se ne trovano una di Berlusconi, mi dimetto».
Ha sempre pagato le tasse sul prezzo pieno, per le case che ha acquistato?
«Prima non si poteva, esisteva l'Invim, l'imposta sul maggior valore che la casa aveva acquisito nel tempo, e chi vendeva non tollerava di vendere formalmente al prezzo reale».
Prima. E poi?
«Adesso c'è la tassa se vendi una casa prima di cinque anni da quando l'hai comprata. La considerano speculazione. Negli ultimi anni io ho venduto e ho pagato quella».
Non sapevo che fosse amico di Furio Colombo.
«Lavoravamo insieme all'Europeo, teneva una rubrica che si chiamava Camera con vista. Amici non so, ma abbiamo buoni rapporti».
Scriveste un libro insieme.
«Il titolo era Fascismo e antifascismo, io scrissi la parte sull'antifascismo».
Guarda tu la vita.
«Sul fascismo era più documentato lui di me».
«Avevo il massimo di visibilità, ero molto di moda, così avevo tutte le donne che volevo». Chi l'ha detto, Silvio Berlusconi o Alberto Sordi agli esordi?
«Berlusconi è di moda anche adesso, sulle donne si trova nella bufera tuttora, perciò era Sordi».
Errore, fu Michele Santoro.
«Tu guarda la vita».
Quel messaggio trasversale sul Fini a luci rosse è stato imperdonabile.
«L'ho chiarito: nessuna minaccia, semmai un timore e una messa in guardia. Non lancio messaggi mafiosi. I bergamaschi ruvidi, teppisti e bestie come me, non conoscono il ghirigori del messaggio obliquo. Siamo gente che urla».
by dagospia